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mercoledì 15 dicembre 2010

Gabriele Lavia: «Il malato non è l’uomo ma il suo immaginario»

Leggere come sostantivo il termine che tradizionalmente funge da aggettivo, spostando così l’attenzione da “malato” a “immaginario” per trasformare il titolo (e il senso) dell’ultima commedia di Molière facendone protagonista non tanto un Argante ipocondriaco, quanto la sua stessa malattia, appunto il suo immaginario (il suo inconscio, per dirla con più attuali termini psicanalitici), la cui malattia consiste nella necessità di sottostare ad un potere, in questo caso quello della medicina.
Parte da questa intuizione la lettura che Gabriele Lavia propone, nel duplice ruolo di regista e protagonista, per la sua nuova edizione de Il malato immaginario, la commedia scritta da Molière nel suo ultimo anno di vita e che vide alla sua quarta messinscena la morte dello stesso autore in palcoscenico. Lavia arriva a Verona per il terzo appuntamento della rassegna “Il grande teatro” – in cartellone al Nuovo da questa sera (alle 20.45) a domenica (alle 16) – tornando a confrontarsi con Molière dopo che già nella stagione 2003-4 della rassegna aveva proposto una originale interpretazione dell’Avaro. Nell’indicarci il filo delle scelte operate in questo caso, l’attore-regista sottolinea proprio, precedendo le nostre domande, il “rovesciamento grammaticale” della lettura del titolo.
Un immaginario ammalato, dunque: del resto parlando del suo lavoro, lei ha detto anche che potrebbe porre come sottotitolo all’allestimento proposto “Tutto sulla morte”. È una lettura che si snoda dunque tenendo Freud e la psicanalisi a portata di mano?
La mia operazione parte dallo spostamento, come dicevo, del valore di sostantivo al secondo dei due termini, appunto “immaginario”: lo potremmo definire il profondo, perché è vero che la psicanalisi, al tempo di Molière, non esisteva come scienza, ma è altrettanto vero che già i greci conoscevano il mistero della “psichè”. Ma c’è anche qualche cosa di più. Quando Molière scrive ha almeno due filosofi di riferimento: da una parte il divino Cartesio, il sublime, dall’altra l’iconoclasta Pascal. Nei “pensieri” di Pascal, che sono tutti brevissimi (due o tre righe) ne troviamo uno di cinque pagine intitolato proprio L’Immagination o l’Immaginaire in cui l’autore spiega che a dominare l’uomo è appunto l’immaginario, e in questo stesso pensiero si parla dei dottori e degli avvocati. Pascal dice che se non fossero addobbati con i loro abiti lunghi e così immediatamente riconoscibili nel loro ruolo nessuno potrebbe credere loro.
Dunque Molière legge i pensieri di Pascal e di qui ha l’intuizione per la sua commedia?
Dai termini che Molière usa, possiamo dire che certamente avesse letto questo pensiero. Tutta la rappresentazione diventa allora la storia di come l’immaginario dell’uomo sia talmente malato da dover sempre soggiacere ad un potere, che in questo caso è il potere della medicina. Il protagonista si sposta dal letto al bagno: noi uomini non abbiamo altra scelta che vagare dal letto al bagno per fare qualche clistere, impotenti di fronte al potere che vuole sempre tenerci in sua balia.
La sua, insomma, è una lettura politica del Malato? In questo senso, al di là della condizione di “malato” connaturata all’uomo di sempre, c’è anche un più stretto riferimento alla nostra attualità?
Sì, certamente è una lettura politica: l’ideologia è la malattia e il malato è colui che vuol far vedere al potere della medicina la sua obbedienza, ed infatti quell’unica volta che rifiuterà l’obbedienza (il clistere) gli sarà fatale. Anche noi oggi non facciamo che esprimere obbedienza a quel potere manipolatorio che si chiama televisione, più che mai succubi di una forza rispetto alla quale non posiamo che vagare dal letto al bagno.
Riguardo a questo presente così desolante, lei di recente si è opposto con forza ai tagli alla cultura che il Governo impone…
Sono convinto che fare tagli alla cultura non sia solo un errore di carattere umanistico o culturale, ma anche politico.
Lo diceva già Shakespeare. C’è un passo dell’Amleto – siamo nella seconda scena del secondo atto – in cui Amleto, preoccupandosi che Polonio trovi degno alloggio agli attori, dice: “E attento: fate che siano ben trattati: gli attori sono abstarcts and brief chronicles of the time sono, cioè, il senso, l’epitome e la cronaca del tempo. Non ti mettere contro di loro”.

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